Siamo pronti a raccontarvi una storia particolarmente curiosa che ha come protagonista Benjamin Auslin, uno studente liceale dello stato americano del Maryland, che in un articolo pubblicato sul Financial Times, ha lodato inaspettatamente, sorprendentemente l’insegnamento del latino nella scuola americana. Lo studio del latino, secondo Benjamin aiuta molto a migliorare la padronanza della propria lingua e a potenziare le capacità intellettuali. Due sono le ragioni che supportano questa sua convinzione: la prima – il latino è una lingua flessiva, questa sua caratteristica, induce a smontare e rimontare ciascuna parola all’interno della frase, per poter comprendere pienamente la funzione sintattica specifica. Va da se che già questo è un’ottimo esercizio mentale. La seconda ragione sta nel fatto che i grandi prosatori latini, da Cesare a Cicerone, scrivevano avvalendosi delle regole della retorica, cioè impegnandosi al massimo per rendere ricco, articolato, sfumato e soprattutto persuasivo il proprio discorso.
Benjamin afferma: “La mia generazione, parla ormai un dialetto inglese nato su Internet, che si degrada di tweet in tweet; immaginate che il genere di dialogo politico, cui abbiamo assistito durante la campagna elettorale del 2016, diventasse la norma per i prossimi dieci anni – quando toccherà alla mia generazione prendere in mano le leve del potere, sarà quello l’unico linguaggio che useremo. Coloro che avranno permesso al discorso social di invadere il dibattito politico(rendendolo il meno civile possibile), raccoglieranno quello che avranno seminato. Si tratta di un tipo di dibattito in cui, quando va bene, a dominare è il semplicismo delle polarità, con strutture binarie del tipo mi piace, non mi piace”.
Lo spunto più interessante, offerto dalle sue riflessioni è sintetizzato in questa sua frase: “Leggete i classici e vi scoprirete un lascito letterario la cui ricchezza farà apparire la maggior parte dei twitter feeds altrettante pitture da caverna preistorica”.
Come non dargli ragione, visto che un fatto è palese: la complessità delle nostre forme comunicative sta paurosamente regredendo a qualche migliaio di anni fa. Riflettiamo bene: i vari emoticon, emoji di oggi, non sono forse delle figurine di cui ci avvaliamo per comunicare qualcosa che ha bisogno di essere decifrato?, la stessa cosa accadeva con le figure incise o dipinte di cui si servivano i nostri antenati(anche questa, pensandoci bene, a suo modo è stata una forma di comunicazione che ancora oggi ci troviamo a decodificare, per comprendere il passato).
Un fatto è certo: a detta di tutti viviamo in un epoca in cui la comunicazione risulta deforme, frammentata e frammentaria.
Per questa ragione non bisogna permettere che la scuola e le istituzioni culturali in generale, si avvalgano completamente di un linguaggio fatto esclusivamente di simboli o disegni telematici(ovvero algoritmi). Questa è la grande sfida da combattere e possibilmente da vincere. Occorre salvare ciò che si è faticosamente acquisito linguisticamente, poichè è parte integrante di un patrimonio intellettuale e culturale universale. Lo studio della lingua latina con tutto il suo bagaglio (tutt’altro che sorpassato), può svolgere un ruolo fondamentale in tal senso. Ed è proprio qui che risiede la coraggiosa lungimiranza di Benjamin Auslin. Non è un caso che l’antico proverbio latino verba volant, scripta manent:«le parole volano, gli scritti rimangono», (la celebre frase fu pronunciata da Caio Tito nel corso di un discorso rivolto al senato romano), affermi la necessità di far documentare per iscritto i propri diritti o più genericamente, l’importanza delle testimonianze e dei documenti scritti.
Alla luce di quanto avete appreso, siete pronti a cogliere la sfida di Benjamin? A voi la risposta.
Annapaola Di Ienno